L’illusione del controllo genera mostri decisionali

L’illusione del controllo genera mostri decisionali

[Il sequel di “Il lievito per dolci in cucina e Industry 4.0” e di “Sesso, Bugie e Modelli Decisionali per l’Impresa”]

[Per i suoi contenuti erotico-culinari espliciti questo post è vietato ai minori di 18 anni ed è classificato XXX Rated. Si sconsiglia la lettura ai minorenni]

Certi hashtag vi rimangono impressi. Inutile dirlo: sono studiati perfettamente. Uno di questi è “#foodporn”. E’ quello che meglio descrive la relazione cibo-sesso e dimostra la dipendenza verso ciò che più ci piace. Non vi tedio qui con disquisizioni ed elucubrazioni mentali e, se volete approfondire, potete scegliere il genere di libro che più vi aggrada dalla psicologia alla cucina, tanto vasto è l’argomento: una buona ricerca tra Dr Search e Prof. Social e avete risolto.

Io, invece, ho deciso di usare l’hashtag per quella relazione tra i post sulla cucina e sul sesso e le decisioni dell’imprenditore, i suoi modelli gestionali e i sistemi di metrica. Come al solito qui diventa piuttosto hard andare al core del problema: come si dice, è un problema “hardcore”.

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Le dimensioni contano3

Sia in cucina che nell’industria del sesso, le dimensioni contano. Oh, ma contano dappertutto, anche nell’impresa e nei modelli gestionali, incluse quelle che definiamo “scalabilità” e “replicabilità”.

Infatti, lo chef in cucina svolge un continuo lavoro di innovazione attraverso la creazione di nuove ricette con ingredienti usuali o la reinterpretazione di vecchie in chiave moderna, attraverso un processo di miglioramento continuo, sapendo bene quali reazioni del palato e quali sinestesie culinarie intende suscitare. L’obiettivo è (ri)evocare, attraverso il sapore e gli odori, ricordi fornendo un’esperienza unica, irripetibile altrove se non nel suo locale. Le prove si susseguono, gli affinamenti anche. Ci vogliono settimane, mesi, anni per definire la quantità di un singolo ingrediente in rapporto ad altri e alle loro variazioni, ponendo attenzione al fatto che la lavorazione cambia sapore in seguito alla trasformazione chimico-fisica in presenza/assenza di fuoco. Per dirla tutta, qui si tratta di oscura scienza alchemica culinaria. I vari tentativi sono annotati, sperimentati, controllati, monitorati e certificati, prototipati, poi introdotti e testati sino al gradimento definitivo per poi riprodursi su larga scala, al pubblico. Gli aspetti più importanti sono la materia prima, il processo, il prodotto finale. In questo processo una delle parti importanti è la metrica.

Chi si diletta in cucina ha già compreso: le ricette si esprimono in grammi o  in tazze/cucchiai etc. A quanti grammi equivale una tazza? E poi di che tazza stiamo parlando? Di quella da caffè, the, cioccolata calda, o da colazione? Per chi non sa fare l’uovo sodo, ammetto che esiste una tabella di convertibilità e, su alcuni misurini, sono riportate le due scale. In pasticceria le misurazioni esatte sono importanti: 180 gradi in forno sono due cose differenti tra la scala Celsius e la scala Fahreneit nel realizzare una ricetta americana. Ma poi chi ci impone di usare queste metriche e non altre inventate da noi? Esistono dei protocolli? Stiamo definendo:

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Proporzioni e dosi

Se le proporzioni e le dosi delle materie prime sono definite, il processo è standard, lo sbattitore funziona, il prodotto è bell’e servito, allora la ricetta codificata diventa quindi “replicabile” e protetta da copyright (non è una metafora, la Corte di Cassazione Italiana è intervenuta epicamente su questo). “Scalabile”? Forse. La produzione di ravioli e tortellini è scalabile: fatto uno, fatti tutti. La produzione della colatura di alici non è più scalabile oltre certi limiti, anche per un range di tempo. Esiste un vincolo alla produzione prima che nel mercato.

Ora il classico case study facile facile: e se invece applichiamo tutto questo nell’industria del sesso? Cosa cambia? Il prodotto è scalabile, replicabile? Qual è la metrica, al di là dei sorrisetti che vi appaiono sul volto? Cosa va migliorato dal punto di vista tecnico? Quanto regge il parallelo?

Traduciamo nel modello gestionale, adesso. Quanto contano le dimensioni dell’impresa? Obiezione: un’impresa artigiana non è un’impresa multinazionale, intendendo con questo sia il carattere dimensionale, sia l’articolazione complessa cui è ripartita la seconda. In realtà il modello gestionale è lo stesso, non cambia, entrambe essendo rivolte al profitto e al perseguimento di questo obiettivo. L’approccio e l’articolazione, quindi, sono i medesimi, cambia solo il livello di complessità; le dinamiche sono le stesse e anche le metriche.

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La confusione nasce da qui

All’aumento del livello di complessità si presume che le variabili da tenere sotto controllo aumentino esponenzialmente perché l’ipotesi posta a base è “devo controllare tutto in ogni singola fase”. Questa dinamica vale indipendentemente dalla grandezza dell’azienda. Pertanto, se devo inserire un sistema metrico – ossia che misuri quello che l’azienda fa per ogni fase – devo inserirlo dappertutto o l’azienda non è in controllo e quindi perde soldi, non raggiunge l’obiettivo. Così si investe in sistemi di controllo di gestione, in database che misurano tutto tranne quello che serve, ossia la “capacità di generare denaro”. Il grande volume di dati connesso alla complessità aziendale per l’incapacità di estrarre informazioni dall’oceano di dati genera la sindrome dell’ago nel pagliaio. Mancando focalizzazione sulle informazioni che servono per prendere decisioni in un oceano di dati, si finisce con il prendere la decisione sbagliata. L’illusione del controllo genera mostri decisionali. Un po’ come girarsi dal lato sbagliato nel letto sul set del film porno o sbagliare la cottura o le dosi degli ingredienti per la ricetta.

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Il senso del ritmo

Altro case study facile facile: e se sbagliassimo il timing? Vi siete fatti più seri, adesso. Provate ad immaginare cosa succede quando siete nei due casi sopra menzionati. Qualcosa vi farà pure sorridere.

Le dinamiche, ho detto, rimangono uguali e questo ci salva. Se le osserviamo meglio, scopriamo anche molte interconnessioni, che ci portano a ridurre le variabili. Abbiamo bisogno di indicatori che siano esattamente definiti in relazione all’obiettivo che vogliamo raggiungere. Arriviamo così ai Key Performance Indicator o KPI. La definizione degli stessi è la risposta alla domanda per cui cerchiamo l’informazione. Questi KPI devono avere uno standard, ossia una metrica univoca che ci consente di poterli replicare e scalarli in un modello gestionale; pezzi/ora o ore/uomo sono due metriche differenti che impattano sulle decisioni e sui costi anche se il processo di produzione è unico e riguarda i ravioli o i tortellini: la rappresentazione numerica cambia. Pertanto, ogni indicatore mal definito è peggio che inutile. Cosa si vuole ridurre/aumentare? Cosa si vuole tagliare? La decisione sbagliata allontana il cliente.

In quel momento compare la sinistra figura del consulente il quale vuole fare da regista in entrambi i casi, imponendo un modello di gestione conosciuto solo da lui e dagli indubbi risultati quanto imposto dall’alto. Ma accettereste che qualcuno vi dica cose che già sapete – gli imprenditori siete voi e il modello lo conoscete, vi rende unici o il mercato vi avrebbe tagliato fuori – o preferite meglio chi vi mette in dubbio la certezza che ciò che fate non possa essere cambiato e capitalizza meglio la vostra conoscenza? In altri termini: quanto conoscete l’evoluzione del vostro business e quanto invece è obsoleto?

Ecco, questo è il paradigma delle vostre decisioni. Che siate chef o pornoattore, le performance dipendono da voi. Il modello di conoscenza e di approccio alle decisioni solo dal vostro mindset. Non è ora di metterlo in dubbio?

La saga è finita.  L’orgia dei sensi e il relativo impero anche.

Il 27 giugno a Milano lo “Young Innovators Business Forum”