Digitalizzazione: una tragedia italiana

Digitalizzazione: una tragedia italiana

Lo stato del processo di digitalizzazione in Italia ed esperienze dirette. Cosa sta succedendo e cosa c’è ancora da fare.

Dopo aver assistito in diretta all’epico fallimento del portale dell’INPS in occasione dei rimborsi della scorsa primavera e al più recente crash nazionale del servizio SPID con il cashback di Stato, è giunto il momento di tirare le somme sul processo di digitalizzazione in Italia.

Il primo problema che si presenta in tutta la sua drammaticità è che siamo in tremendo ritardo. Siamo in ritardo a livello infrastrutturale, con una rete nazionale che sta facendo fatica a tenere il passo con l’impennata d’uso di Internet ai tempi del lockdown. Siamo in ritardo a livello di qualità dei servizi online erogati, con portali pubblici sviluppati con tecnologie di almeno 10-15 anni fa che ormai vengono tenuti in piedi solo grazie alla paura delle conseguenze di un upgrade o di un completa migrazione verso tecnologie più moderne. Siamo in ritardo a livello dell’usabilità offerta dai suddetti servizi, con siti ed applicativi che sembrano ignorare del tutto le sane regole dettate da esperti come Jakob Nielsen e Steve Krug.

Il secondo problema, ancora più grave, è rappresentato dal fallimento nell’alfabetizzazione informatica dei cittadini. Anche gli imprenditori che decidono di creare una loro presenza online dimostrano spesso una quasi totale ignoranza del funzionamento del Web e dei suoi servizi nonché una altrettanto pericolosa sottovalutazione del potenziale offerto da questo medium. In pratica, vogliono essere online non tanto perché sono consapevoli di cosa comporti esserlo, quanto piuttosto per imitare i loro competitor che già lo sono.

Gli altri media non si occupano di questi argomenti se non per riportare le notizie di grido circa l’ultimo exploit di sicurezza e per parlare degli hacker, figure che riempiono molto bene le news dato l’impatto decisamente romantico che hanno sull’immaginario collettivo.

Di conseguenza, il restante 99% delle figure professionali del mondo IT resta nell’ombra, il che non ci sorprende più di tanto visto che negli annunci di lavoro del settore abbondano le richieste di “tuttologi” più che di veri professionisti. Quindi se neppure le aziende del settore comprendono la differenza tra un sistemista ed uno sviluppatore, come si può pretendere che gli imprenditori sappiano scegliere consapevolmente tra le varie proposte che vengono offerte loro?

E dato che i cittadini ormai sanno tutto a riguardo delle probabilità che si verifichi un nuovo impatto di un meteorite con la Terra come quello avvenuto nel tardo Cretaceo ma non vengono minimamente istruiti circa l’uso degli strumenti informatici, come si può pretendere che comprendano che un computer non può essere equiparato ad un comune elettrodomestico?

Il terzo problema è il contrasto insanabile tra l’apparato burocratico e il digitale. Il mantra secondo cui un documento non esiste se non è nel faldone è ben lungi dall’essere scomparso. Infatti la PEC e la firma digitale altro non sono che un goffo compromesso con la natura analogica della burocrazia che usa lettere raccomandate e un numero imprecisato di timbri e firme da apporre sui documenti, documenti squisitamente cartacei. Il dubbio che i nostri file PDF rigorosamente inviati via PEC e altrettanto rigorosamente firmati digitalmente vengano poi solo stampati e messi nei faldoni resta angosciosamente vivo. E se davvero fosse così, qual’è il senso di tutto questo?

Se davvero possiamo parlare di un'”Italia 4.0″, espressione che ricorre spesso negli annunci ufficiali, lo dobbiamo a quelle aziende digitali italiane e a quei professionisti che continuano ad innovare e a resistere navigando contro corrente in un mare di leggi e cavilli che scoraggerebbero chiunque dall’intraprendere un simile percorso. Il “deus ex machina” alla fine del dramma sono appunto loro, il che lascia aperta una grande speranza per il futuro.