L’algoritmo della stupidità sociale non è frutto dei Social

L’algoritmo della stupidità sociale non è frutto dei Social

Analisi di come la rivoluzione digitale e Facebook o Twitter abbiano spinto il declino dell’intelligenza di specie, senza esserne l’unica causa

La stupidità sociale non dipende dall'uso che si fa dei social network, ma dal loro abuso e da processi spesso inevitabili
La stupidità sociale non dipende dall’uso che si fa dei social network, ma dal loro abuso e da processi spesso inevitabili

Questo articolo prende spunto direttamente da “Who the past 10 years of American Life have been uniquely stupid – It’s not just a phase” (“Perché gli ultimi 10 anni della vita americana sono stati straordinariamente stupidi – E non è solo una fase”) di Jonathan Haidt, psicologo sociale presso la Stern School of Business della New York University, uscito sulla autorevole rivista americana “The Atlantic”.
L’articolo del Dottor Haidt mi ha profondamente colpito e ho pensato di integrarne le tesi principali con pensieri e riflessioni più “localizzate” che mi frullavano in testa da tempo, relative a un argomento più ampio: l’intelligenza di specie – o meno – dell’umanità, in relazione a una serie di meccanismi sociali messi in moto negli ultimi dieci o quindici anni dall’avvento di specifici algoritmi utilizzati dai maggiori social network (Facebook, Instagram, Twitter e via dicendo).
La tesi si diparte dall’immagine, mitica ma non troppo, della Torre di Babele: l’opera di sfida dell’uomo a Dio, l’atto supremo di arroganza che l’Altissimo punisce non distruggendola come Sodoma e Gomorra, ma in modo più sottile e forse più crudele, rendendo gli uomini incapaci di comprendersi l’un l’altro.
Proprio quello che negli ultimi anni sarebbe accaduto negli “Stati non più Uniti”, che la frammentazione e l’incomunicabilità delle posizioni non solo fra partiti diversi, ma all’interno dei medesimi partiti e famiglie, ha trasformato in un luogo conteso “fra due Paesi diversi che rivendicano lo stesso territorio”.
E quale sarebbe la nostra moderna Torre di Babele? L’Internet dei Social Media e della loro ansia di monetizzazione. Vediamo come e perché.

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Internet così come appariva agli albori degli Anni 90 all'inizio della trasformazione digitale
Internet così come appariva agli albori degli Anni 90 all’inizio della trasformazione digitale

Quando la Rete fu (o era ritenuta) l’Eden

C’è stato un momento iniziale, vissuto in pieno dal sottoscritto, in cui Internet era la nuova Terra Promessa. Un luogo in cui ci si poteva permettere di discutere (non scontrarsi, bensì confrontarsi, per capire il punto di vista altrui), potenzialmente con il resto dell’intero pianeta, prima conoscendo a sufficienza la lingua inglese, poi imparando a utilizzare il traduttore di Google.
Sì, ogni tanto si poteva incorrere in un flame (letteralmente una “fiammata”, una litigata in Rete) ma in genere rimaneva uno scontro personale, o comunque all’interno di gruppi ben delimitati.
In compenso si apriva un intero nuovo universo di saperi e occasioni, un po’ come accade in “The Espanse” con l’apertura dell’Anello verso infiniti nuovi mondi.
Peccato che alla fine, come nella serie TV su PrimeVideo (tratta da una saga fantascientifica letteraria di Daniel Abraham e Ty Franck sotto lo pseudonimo di James S. A. Corey), invece di lanciarci impavidi ed evolutivi verso l’ignoto, ci siamo ritirati nelle nostre vecchie misere logiche tribali.
E abbiamo continuato a farci la guerra, a tutti i livelli, dai vicini di casa ai Paesi confinanti.
Attenzione, però: non sono i social in sé il vero problema. All’inizio funzionavano benissimo, permettendo a ognuno di allargare e gestire la propria cerchia di amici, di recuperare vecchi contatti perduti, magari a causa della lontananza.
Fino a quando i rapporti umani si limitavano a quelli del proprio “villaggio digitale”, magari conoscendo ogni tanto nuove persone e facendoci amicizia se era il caso, tutto procedeva tranquillamente, come accade in un piccolo paese o in un quartiere “a misura d’uomo”.
Ed ecco il concetto fondamentale: a misura d’uomo. Non di macchina, non di business.

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Un'allegoria della Torre di Babele, così come interpretata da una storia di fantascienza in stile "tnounsy"
Un’allegoria della Torre di Babele, così come interpretata da una storia di fantascienza in stile “tnounsy”

2011-2015: la Caduta della… “Nuova Torre”

L’articolo su “The Atlantic” fa una disamina puntuale dei fenomeni sociali e politici americani che in questa sede non ci interessa approfondire; quello che ci interessa è l’individuazione e definizione delle principali cause, di cui anche noi stiamo da qualche anno assaggiando gli effetti più deleteri: polarizzazione ed estremizzazione delle posizioni, perdita della capacità di confronto e dialogo, semplificazione eccessiva delle tesi contrapposte, aumento delle gogne sociali ingiustificate, masse isteriche! (no, questa era soltanto una citazione).
Partiamo dalla storia umana, che soprattutto negli ultimi secoli è stata caratterizzata, al di là dei conflitti e delle incomprensioni, da una spinta generale verso una cooperazione su larga scala.
Man mano che la velocità di propagazione delle informazioni è aumentata, è diventato sempre più difficile considerare gli altri dei nemici, indegni di essere definiti esseri umani.
Anche gli abitanti dei Paesi più lontani e dalle usanze più diverse non ci appaiono così alieni, quando abbiamo occasione di conoscerli meglio.
Dapprima grazie alla radio e ai giornali, poi grazie ai mezzi di comunicazione di massa sempre più rapidi (televisione via satellite, Internet) l’intero pianeta si è trovato infine collegato in modo istantaneo: il cosiddetto “Villaggio Globale”, dove sempre più conviene parlare, commerciare, non farsi la guerra.
Il progresso tecnologico apparentemente ci spingerebbe sempre più verso un futuro cooperativo: unendo le forze di tutti i Paesi abbiamo creato dei progetti scientifici formidabili (la Stazione Spaziale Internazionale, il CERN, dove è stato anche inventato il Web). Ma a un certo punto qualcosa è andato storto.
Sono arrivati i pulsanti “mi piace”, “retweet”, “condividi”.

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Facebook condannato a morte sul rogo come un eretico: una prospettiva realistica
Facebook condannato a morte sul rogo come un eretico: una prospettiva realistica

L’elogio contraddittorio della folla manzoniana

E che sarà mai, avrà pensato a questo punto qualcuno di voi.
Dopotutto è proprio la possibilità di apprezzare e condividere al volo qualunque cosa, la parte più divertente e stimolante degli attuali social.
Il problema è che questa nuova interazione ha portato un effetto devastante: l’intensificazione delle dinamiche virali.
Dal momento in cui è diventato più importante stimolare i “mi piace” e i “condividi” su Facebook, ad esempio, sono stati sviluppati algoritmi che mostrassero a ogni utente non più quello che i suoi amici pubblicano in ordine cronologico, ma tutto ciò che lo porta di più a cliccare su “mi piace” e su “condividi”.
Una serie di ricerche scientifiche ha in seguito dimostrato che sono i post che scatenano emozioni forti, soprattutto la rabbia nei confronti di gruppi di persone estranee al proprio giro di conoscenze, quelli che hanno la maggiore probabilità di essere condivisi. Quelli che diventano virali, appunto.

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Una statistica dei retweet a seconda dell'orientamento politico e della "comunità" sociologica di appartenenza
Una statistica dei retweet a seconda dell’orientamento politico e della “comunità” sociologica di appartenenza

Il posting equivale a una vera e propria lotteria

Così postare qualcosa su Facebook o su Twitter è diventato l’equivalente di giocare al lotto.
Se hai fortuna il tuo post potrebbe diventare positivamente virale, venire condiviso da migliaia, milioni di persone e, se piace, avrai i tuoi giorni di fama sulla Rete.
Ma se per qualche motivo sbagli il tiro, potresti trovarti nelle mani della folla manzoniana e subire, letteralmente, un linciaggio sulla pubblica piazza che, per quanto “virtuale”, avrà delle ripercussioni pesantissime sulla tua vita reale. Quello che io, insegnante, cerco ogni giorno di far capire ai miei allievi delle scuole medie.
Cambiando così le regole del gioco, senza pensare alle possibili conseguenze, è stata incoraggiata la disonestà (notizie false e tendenziose per fare audience) e le dinamiche di gruppo.
Agiamo non più basandoci sulle nostre reali preferenze, ma sulle esperienze passate negative (punizioni) e positive (premi) secondo le regole del gruppo di appartenenza.
Logiche di rinforzo e desiderio di conferma e di accettazione, che portano ognuno di noi a conformarsi alla propria maggioranza.
Un ingegnere di Twitter che lavorò proprio al pulsante “retweet” in seguito ha rivelato di essersene pentito, di essersi reso conto di avere resto Twitter un posto più cattivo.
Chi sa che cosa ne pensa Elon Musk di questo? Ai posteri l’ardua sentenza.
Ma potrebbe essere, conoscendolo, l’inizio di un grande cambiamento, viste le sue ultime dichiarazioni dopo la sua acquisizione di Twitter.

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Uno specchio rotto impedisce di vedere se stessi e gli altri in maniera oggettiva
Uno specchio rotto impedisce di vedere se stessi e gli altri in maniera oggettiva

Quella fiducia ormai scheggiata nel prossimo

Storicamente, le civiltà hanno basato la loro unità sulla condivisione del sangue, sulla religione, sulla presenza di nemici da combattere.
Tre sono invece le “colonne sociali” principali, individuate dai sociologi, che sorreggono una democrazia laica moderna, come ad esempio gli Stati europei.
Esse sono: “Il capitale sociale”, ovvero le reti sociali il più possibile estese con alti livelli di fiducia reciproca; le “Istituzioni forti”, ovvero autorevoli, riconosciute, efficienti e degne della fiducia dei cittadini; le “Storie condivise”, con una larga maggioranza che ne riconosce senso e autenticità.
Purtroppo i meccanismi virali dei social network moderni hanno indebolito tutti e tre questi fattori, soprattutto dal 2009 in poi.
Passando dalla logica del piccolo gruppo alla ricerca ossessiva della “viralità”, molti utenti hanno iniziato a condividere dati personali e sensibili con un grande numero di perfetti estranei, cercando di guadagnare il più alto numero di consensi; ma gli “amici” così ottenuti sono alla fine degli sconosciuti, con i quali magari non c’è stato mai un confronto neppure indiretto.
Sono dei “followers”, degli “inseguitori” che restano fedeli al tuo personaggio fino a quando “pensa col loro pensiero”, ma che sono pronto a crocifiggerlo non appena esce dai loro binari.

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I logotipi di alcuni social media e social network gettonati dagli utenti di Internet
I logotipi di alcuni social media e social network gettonati dagli utenti di Internet

Dalle “piazze di confronto” alle esibizioni

Le piattaforme social si sono trasformate così da “piazze di confronto” a “piazze di esibizione”, dove grazie alla potenza di un pulsante che ti permette di condividere un contenuto con un solo click, senza alcuno sforzo e magari senza neppure averlo letto e compreso fino in fondo, e senza alcuna limitazione di volte in cui tale contenuto possa essere così condiviso, porta matematicamente a dei fenomeni di diffusione esponenziale dei post di maggior successo.
E alla nascita di veri e propri “tribunali del popolo”, in modo molto più rapido e marcato rispetto a quanto poteva accadere prima dell’epoca di Internet. I flame diventano così incendi incontrollabili che alimentano se stessi, dove le posizioni più aggressive ed estremiste vincono su tutte le altre per la loro “potenza emotiva”.

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Un'allegoria del cosiddetto "pregiudizio di conferma", che porta gli uomini e le donne a credere a ciò che più fa loro comodo
Un’allegoria del cosiddetto “pregiudizio di conferma”, che porta gli uomini e le donne a credere a ciò che più fa loro comodo

Il falso principio per cui “uno vale uno”

Una ricerca dei politologi Alexander Bor e Michael Bang Petersen ha scoperto che un piccolo sottogruppo di persone sulle piattaforme di Social Media è molto preoccupato di elevare il proprio status sociale ed è disposto a usare l’aggressione per farlo.
Tali persone ammettono che, nelle discussioni online, spesso maledicono o prendono in giro i loro avversari e sono bloccati da altri utenti o segnalati per commenti inappropriati.
In otto successivi studi, Bor e Petersen hanno verificato che essere online non rende la maggior parte delle persone più aggressive o ostili; piuttosto, ha permesso a un piccolo numero di persone aggressive di attaccare un gruppo molto più ampio di vittime.
Un piccolo numero di agitatori è in grado di dominare i forum di discussione.
Ulteriori ricerche rilevano che le donne e i neri sono molestati in modo sproporzionato, quindi la piazza pubblica digitale è meno accogliente per le loro voci.
Così la fiducia nelle istituzioni, siano esse di governo o culturali o scientifiche, non viene semplicemente messa in discussione ma scheggiata in migliaia di frammenti, dove il principio “uno vale uno” annulla ogni forma di autorevolezza e chiunque si sente in diritto di discutere di fisica quantistica o di energia nucleare con un fisico, di immunologia con un immunologo, di fenomeni sociali con un sociologo.
Il tutto come se le sue conoscenze (spesso meno che nulle) delle materie più complesse, acquisite con qualche lettura su Internet, permettessero un confronto alla pari con chi le studia da decenni.
Ecco quindi che, perdendo la fiducia nelle istituzioni (non soltanto quelle governative, ma anche più semplicemente le università e i loro rappresentanti, i ricercatori di qualunque disciplina), non esiste più una storia condivisa né un’autorità di conoscenza cui fare riferimento.
Nelle chat scolastiche fra i genitori, ogni azione pedagogica dell’insegnante è messa in dubbio. Nei gruppi sui social impazza la pseudo-scienza, perché andare “contro il pensiero dominante” è cool indipendentemente dal senso di quanto si afferma, e spesso dalla sua pericolosità per la salute e per la società.
Ma non esiste unità neppure nella protesta fine a se stessa: tutto il pubblico è, appunto, frammentato come uno specchio rotto in mille pezzi che si “riflettono in cagnesco”.

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L'uso irrazionale dei social network ha rotto i legami fra gli uomini anziché creare ponti di comunicazione (Disegno: Frits Ahlefeldt)
L’uso irrazionale dei social network ha rotto i legami fra gli uomini anziché creare ponti di comunicazione (Disegno: Frits Ahlefeldt)

La morte preoccupante del compromesso

Le Costituzioni moderne furono concepite per impedire certi fenomeni che erano già ben conosciuti ai loro estensori.
Il punto debole di una democrazia sono proprio le “turbolenze e le passioni indisciplinate” che possono colpire le comunità democratiche, che necessitano quindi di meccanismi di raffreddamento, di rallentamento delle pulsioni, per dare anche agli amministratori il tempo e l’isolamento necessario a concepire risposte e soluzioni complesse, adeguate, non improvvisate sull’emozione del momento.
Il concetto di compromesso, vissuto sempre più negativamente negli ultimi anni, ha invece un suo preciso valore sociale, il venirsi incontro fra posizioni opposte, comprendere gli uni il punto di vista degli altri e cercare delle strategie comuni per risolvere i grandi problemi sociali.
Invece, la rapidità nelle reazioni sulle grandi piazze virtuali donateci dalle aziende tecnologiche ha riportato tutto agli scontri tribali, stimolando quella tendenza a dividerci in squadre o partiti dove l’animosità verso gli avversari sovrasta ogni volontà di confronto.
Così ogni elezione politica diventa una battaglia per impedire a tutti i costi la vittoria degli avversari e il senso profondo della democrazia si perde in uno scontro di tifoserie.
In tal modo, personaggi come Beppe Grillo in Italia, Boris Johnson in Inghilterra, Donald Trump negli States non hanno causato la caduta della torre, ma ne hanno sfruttato appieno l’energia cinetica, sono stati capaci di coglierne le potenzialità dirompenti e volgerle a loro favore.
Senza troppe preoccupazioni per le conseguenze a livello sociale. E guai a fraternizzare col nemico (almeno fino a quando non si arriva alla poltrona), guai a discutere civilmente nel merito con l’avversario politico, anche se fa affermazioni corrette: equivale al reato di Alto Tradimento.
Si tratta di un fenomeno che viene peggiorato dalla paura da parte delle istituzioni, che appena intravedono una possibile shitstorm (letteralmente “tempesta di cacca”) per le dichiarazioni di un loro membro, che sia un rappresentante legale, un professore, un giornalista, si affrettano a prenderne le distanze.
La loro autorevolezza, guadagnata magari in decenni o addirittura secoli, viene sacrificata sull’altare dei Tribunali della Rete.

Fotogallery, le vignette che esorcizzano le paure della rete

Le "fake news" o "notizie false" hanno ottenuto una notevole escalation con la trasformazione digitale e nella misura in cui i social network si sono incaricati di essere la "coscienza del mondo"
Le “fake news” o “notizie false” hanno ottenuto una notevole escalation con la trasformazione digitale e nella misura in cui i social network si sono incaricati di essere la “coscienza del mondo”

C’è una convergenza fra opposti estremismi

Torniamo a quanto affermato dall’ingegnere “pentito” di Twitter, che dopo aver collaborato alla creazione del pulsante Retweet scrisse: “È come avere consegnato una pistola a un bambino di quattro anni”.
Un tweet non uccide nessuno, in effetti, ma può fare male, soprattutto se lo stesso è ripreso e condiviso, senza sforzo e senza scrupoli, da migliaia o milioni di persone.
Quindi più che una calibro 38, si potrebbe dire che i Social Media moderni ci hanno consegnato una pistola a dardi, a “freccette”, che anche se non uccidono (a meno che non ti prendano proprio in un occhio), certamente danni ne fanno.
E ne hanno consegnate un miliardo, indistintamente a tutti, che hanno iniziato a tirarsi freccette come le palline di carta in una classe di prima media.
Qualche volta questo potere ha dato buoni frutti: la denuncia degli abusi sessuali sistematici in alcune aziende americane, ad esempio, non avrebbe avuto lo stesso effetto senza questi mezzi.
Purtroppo però i casi di giustizia sono l’eccezione, in un mare di bullismo e ingiustizia.

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L'eterna dialettica fra "paura" e "odio" propria di Internet e delle reti sociali calate nella virtualità
L’eterna dialettica fra “paura” e “odio” propria di Internet e delle reti sociali calate nella virtualità

L’aggressività è il motore di una falsa socialità

In una classe indisciplinata i leader sono gli alunni e le alunne più aggressive, e lo stesso accade nei social dove i più aggressivi o i personaggi più “iconici” la fanno da padrone.
Così accade che le frange politiche più estreme, sia a sinistra che a destra, fanno più chiasso a scapito dei moderati che spesso si arrendono all’onda, anche per paura di venirne travolti.
E non è un caso che le posizioni di tali frange spesso coincidano, pur se apparentemente opposte, grazie all’effetto “Ferro di cavallo”, già teorizzato in politologia dallo scrittore Jean-Pierre Faye.
Le “freccette” dei Social Media danno più potere e voce agli estremi politici riducendo al contempo il potere e la voce della maggioranza moderata.
Lo studio “Hidden Tribes”, del gruppo pro-democrazia “More in Common”, ha intervistato 8.000 americani nel 2017 e nel 2018 e ha identificato sette gruppi che condividevano credenze e comportamenti.
Quello più lontano a destra, noto come “conservatori votati”, costituiva il 6 per cento della popolazione degli Stati Uniti. Il gruppo più lontano a sinistra, gli “attivisti progressisti”, costituiva l’8 per cento della popolazione.
Gli attivisti progressisti erano di gran lunga il gruppo più prolifico sui Social Media: il 70 per cento aveva condiviso contenuti politici nell’anno precedente. Seguirono i conservatori devoti, al 56 per cento.

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I social media amplificano spesso notizie senza costrutto o addirittura pericolose per la società
I social media amplificano spesso notizie senza costrutto o addirittura pericolose per la società

Il Pregiudizio di Conferma “è” il Web?

Nel pensiero umano c’è la tendenza a considerare solamente le prove che confermano la propria tesi, il cosiddetto “Pregiudizio di Conferma”.
È una trappola in cui cadiamo tutti, anche coloro che dovrebbero conoscere meglio degli altri il metodo scientifico.
Quante volte degli articoli scientifici che andavano troppo “fuori” dalle convinzioni generali del momento, pur portando argomenti o prove evidenti, sono ignorati dalla comunità scientifica per anni, fino a quando le scoperte successive non ha reso impossibile ignorarli?
Già prima dei social pervasivi, gli stessi motori di ricerca come Google, privi di un sistema efficace di “fact checking”, stavano alimentando le teorie di complotto (non siamo stati veramente sulla Luna, la Terra è piatta, l’11 settembre è stato una messa in scena, il COVID-19 non esiste…).
I Social Media hanno peggiorato le cose perché hanno scoraggiato l’interazione “fuori dalla propria bolla”, ovvero il confronto con persone che non condividono le tue opinioni e che magari conoscono meglio di te certi argomenti.
Confrontandoci con un ingegnere spaziale o con un giornalista scientifico serio, potremmo facilmente verificare la falsità di certe “prove” costruite ad hoc (vedere ad esempio il caso della correlazione vaccini-autismo che è risultato una vera e propria truffa, alla quale continuano a credere non in pochi).
Ma il pregiudizio di conferma, unito all’effetto “bolla” dei nuovi algoritmi, ci spinge in altre direzioni.
Così, quando il 99 per cento dei climatologi afferma che il cambiamento climatico ha origine antropica e meno dell’1 per cento afferma il contrario, per qualcuno il confronto continua ad essere fifty-fifty (qui hanno in buona parte colpa anche i media tradizionali e i loro talk-show). E ci si ritrova in un loop vizioso nel quale ci perdono tutti, a partire dalla verità. Anzi, dalla verità scientifica…

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Quale futuro ci riserveranno i social media?
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