Quella strana percezione del digitale in assenza di know-how
Quella strana percezione del digitale in assenza di know-how
La scarsa capacità di gestire l’informatica e i suoi dispositivi da parte di molti “utonti” indica il bisogno di un nuovo approccio umanistico
Una vecchia storia divertente sul mondo digitale, ma tragicamente vera. Eccola. Call Center: “Signore, qual è il problema?”; Utente: “Non si accende il monitor!”; Call Center: “Ha controllato se la presa elettrica è collegata?”; Utente: “Ora controllo, qui manca la corrente da un’ora, con la candela non vedo bene…”; Call Center: “…!!!”.
Questa è un storiella che gira ormai da decenni in molte versioni diverse, soprattutto nell’ambiente di chi si occupa di assistenza tecnica al computer.
È stato anche coniato un termine per quel tipo di utente che non ha chiaro che cosa sia un computer, né come funzioni (neppure un’idea di massima) e fa spesso perdere un sacco di tempo a chi lo dovrebbe aiutare: “utonto”, in inglese “luser” (loser user, utente perdente).
A suo tempo il sottoscritto seguiva un blog molto divertente, “Il favoloso mondo degli utonti”, dove un addetto all’help desk di una importante azienda informatica ha raccontato le diverse esperienze vissute da ottobre 2009 a marzo del 2013; le storie sono ancora tutte lì, se volete farvi due risate (alcune sono abbastanza tecniche).
Essendomi occupato io stesso di CRM (Customer Relationship Management) per quasi venti anni, posso testimoniare che al di là dei casi limite, la media degli utilizzatori di computer, almeno in Italia, è piuttosto impreparata. E che, soprattutto, si rifiuta di imparare. Cerchiamo insieme di capire il perché.
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Una premessa utile per “capire”
Ciò che vale per il computer vale anche per gli smartphone e i tablet. Certo, questi due ultimi apparecchi digitali sono nati più tardi e con il preciso scopo di rendere l’informatica più intuitiva, ma ciò non impedisce i rischi di un utilizzo scorretto, soprattutto sulla Rete. Ma andiamo con ordine.
Verso computer quantistici compatti grazie alla… topologia
Amarcord (i miei primi 40 anni)
Il primo computer che ho utilizzato in vita mia è stato un Apple IIe, acquistato da mio padre per lavoro nel 1983, quando avevo 19 anni. Da quanto ricordo mi ci appassionai subito, ma non perché avessi un precedente interesse per l’informatica. Intanto era una cosa nuova, stimolante.
In secondo luogo rimasi affascinato dalle potenzialità di un apparecchio in grado di fare calcoli al posto nostro e di lavorare al posto nostro, ubbidendo pedissequamente ai comandi scritti in un linguaggio misterioso, il codice. Forse il fatto di essere appassionato di fantascienza influì, non so.
Prima imparai a usare i programmi già belli e pronti (soprattutto Visicalc, il papà di tutti i fogli elettronici). Quindi iniziai a studiare per conto mio un po’ di linguaggio di “alto livello” (Apple Basic) e anche il ben più misterioso linguaggio di “basso livello) (Assembler) che permetteva di ottenere funzioni e prestazioni molto più rapide, anche a livello di grafica. Ho ancora da qualche parte un quaderno dove ho raccolto le stampe (fatte con una rumorosa, lenta e vagamente inquietante stampante ad aghi dell’epoca) di grafici ottenuti da funzioni ed equazioni matematiche che mi divertivo a simulare, spesso un po’ a caso.
I computer di allora erano macchine costosissime e ridicolmente lente rispetto a quanto uno smartphone medio odierno riesce a calcolare, ma per noi erano astronavi per esplorare il cosmo profondo, con i loro monitor a fosfori verdi a 80 colonne, i loro floppy da 5 pollici con i dischi che si piegavano e senza alcuna icona, menu o bella immagine ad alta risoluzione.
Eravamo nerd, o geek, o quello che vi pare.
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Prima tipologia: gli spocchiosi
Ho sempre apprezzato i libri di Andrea Camilleri e la trasposizione televisiva de “Il Commissario Montalbano”, di cui ho visto tutte le puntate, anche più di una volta.
Sono però rimasto colpito da uno specifico aspetto delle storie di Montalbano: fra i protagonisti, in tutto il commissariato di Vigata l’unico che sa utilizzare il computer, e anche piuttosto bene, è Catarella.
Che, come sa chi ha visto la serie, non brilla esattamente per rapidità di comprendonio.
Questa scelta umoristica di Camilleri sottende un atteggiamento che ho riscontrato in molti intellettuali italiani, anche di un certo livello: un malcelato disprezzo verso l’informatica, i computer, gli smartphone e i tablet, Internet e compagnia bella.
Camilleri lo esprime con eleganza, altri no.
Non penso occorra ricordare le polemiche degli ultimi mesi sulla didattica a distanza, che spesso sfociano in concioni contro il mondo digitale tutto, con i suoi videogiochi che rovinano le nuove generazioni, la terribile Rete Internet piena di pornografia, le grida di allarme per i libri che non vengono più letti; allarmi in generale lanciati da attempati filosofi, da politici che fanno stampare le mail dai segretari, da colleghi docenti che considerano l’utilizzo del digitale nella didattica la fonte di tutti i mali (e lanciano tali allarmi, notare bene, su Facebook).
Ma questo atteggiamento deriva da qualcosa d’altro: non è legato solo al mondo del digitale e ai suoi effetti sulla società.
È ben più antica la causa, legata a una certa parte della filosofia crociana, secondo la quale il sapere umanistico è intrinsecamente superiore a quello scientifico matematico; e quale oggetto tecnologico nel comune immaginario si trova più vicino alla scienza e alla matematica di un computer?
Così arriviamo a vedere intellettuali vantarsi pubblicamente di non capire nulla di computer e del mondo digitale, quasi fosse un fregio da appendere alla giacca.
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Il nostro “Je t’accuse”: e quindi?
Il nostro è uno “Je t’accuse”. Assolutamente no! Prima di tutto perché, a parte poche isole di irriducibili, questo fenomeno sta scemando.
Ormai è relegato nei media tradizionali (TV broadcast generalista, quotidiani cartacei), che le nuove generazioni – ma non solo – stanno via via abbandonando in favore di mezzi più digitalmente integrati. In secondo luogo questo è stato sempre un atteggiamento coltivato da pochi eletti. I problemi generali sono ben altri.
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Le altre tipologie di “utonti”
Abbiamo individuato una prima tipologia di utonti: quella, se vogliamo, più antipatica.
Ma come scrivevo si tratta di una minoranza. Nella mia carriera ne ho individuate almeno altre due: i superficiali e gli spaventati, entrambe valide per qualsivoglia sesso o genere.
Partiamo dalla seconda.
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Gli spaventati dall’innovazione
Persone che nutrono un sacro terrore nei confronti del digitale. Spesso sensibili e intelligenti, quando si trovano davanti a un monitor apparentemente perdono buona parte delle capacità intellettive. Vanno nel panico se compare un qualunque messaggio di sistema e sembrano incapaci di interpretarlo.
Tentano disperatamente di imparare a memoria tutte le possibili combinazioni di comandi, menù, flussi di lavoro disponibili, cosa ovviamente impossibile.
Sono fermamente persuase di non avere alcuna capacità di capire il mondo digitale, un po’ come le persone convinte di essere stonate e di “non avere orecchio musicale”, che non esistono, se non in rari casi patologici.
Agli spaventati è semplicemente mancato un primo passaggio: la curiosità con metodo, la volontà di capire. Comprendono l’importanza di questo approccio al mondo e vivono il loro stato come una sorta di handicap.
Sono persone rimaste dinanzi alla porta, con aria vagamente imbronciata e utilizzano malvolentieri il mezzo digitale, spesso costrette da impegni lavorativi, o semplicemente perché oggi certi servizi implicano il suo utilizzo.
Spesso ancora recuperabili, ne esistono di tutte le diverse gradazioni (dal timore inquieto alla disperazione) e nel momento in cui cambiano idea su loro stesse e “ci si mettono”, iniziano a divertirsi e possono diventare anche brave.
Piccola nota personale: talvolta, anzi sempre più spesso, gli utonti spaventati li capisco bene. Non sempre l’informatica è amichevole e intuitiva come si presenta.
Anzi, in alcuni sistemi operativi molto diffusi la “mentalità burocratica” appare insita nell’incoerenza d’interfaccia, nell’inconsistenza semantica di alcune soluzioni, nell’affastellarsi di strati con logiche differenti uno sopra l’altro fino a creare un guazzabuglio incomprensibile.
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I tanti superficiali della tecnologia
Ed eccoci arrivati al problema peggiore e, temo, più diffuso.
Vige ancora una dicotomia diffusa fra “reale” e “digitale”.
Come se il mondo digitale fosse qualcosa di etereo (!), di nebuloso e virtuale nel senso di “non vero”, non capace di influenzare la nostra vita quotidiana. Gli utonti superficiali sono convinti che un computer valga l‘altro, quindi perché spendere di più?
Che un sito internet fatto per 500 euro o 600 franchi dal loro cugino diciannovenne vada bene per la loro società quanto un sito Internet professionale. Che il GDPR sia un tipo di gelato al gusto di prugne rinsecchite.
Che un software possa essere sviluppato nei momenti di pausa, tanto che ti costa? Che il brano musicale composto per il Jingle del loro spot non valga più di 1.000 euro: “soccia”, fa tutto il computer, no?
Per capire meglio il tipo di danno sociale creato dagli utonti superficiali (che, va detto, per buona parte sono imprenditori, quadri di grandi società, assessori di comune o provincia, burocrati di medio-alto livello, insomma ahimè risiedono nei posti decisionali) dobbiamo partire da una considerazione generale, questa valida a livello planetario.
Per guidare un’auto, una moto, un mezzo di trasporto qualunque, ci vuole una patente. In tutto il mondo. Certo, non si pretende più che chi guida una macchina sia un “quasi meccanico”, anche perché le auto prodotte oggi richiedono un’alta specializzazione tecnica per potervi intervenire, spesso una formazione specifica per marchi specifici.
Però che un/una conducente (almeno fino a quando la mitica guida autonoma non sarà una funzione reale) sappia la differenza fra volante e cambio, fra acceleratore, freno e frizione pare a tutti ragionevole, giusto?
Ebbene, tutto questo non sembra valere per i device tecnologici.
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La formazione, questa sconosciuta
Qualcuno a questo punto avrà pensato “ma esiste la Patente Europea del Computer”: io preferirei non affrontare questo punto perché credo che richiederebbe un articolo a parte.
Faccio solamente e sommessamente notare che se, almeno nella “vita reale professionale italiana”, tale patente ha un valore corrispondente al due di picche nella briscola, forse un motivo ci sarà, strutturale o culturale.
Una cosa però è chiara: non esiste una formazione all’uso intelligente ed efficace del digitale slegata da specifiche piattaforme, o almeno non è obbligatoria a livello didattico o professionale, nella maggior parte dei casi.
E la mentalità vigente sembra non richiederla, non se ne preoccupa più di tanto. D’altronde un computer vale l’altro e un device vale l’altro (provate però a chiedere a uno di questi “imprenditori” di scambiare la sua Audi A7 con una Dacia Sandero e vedete cosa vi risponde).
Ecco quindi l’origine delle gustose storie raccontate su Facebook dal nostro editore Andreas Voigt, storie un po’ horror che garantiscono accapponante divertimento ma che ci fanno anche capire l’origine di molti dei problemi del Paese Italia.
Sistemi di e-commerce venduti un tanto al chilo da consulenti informatici che spariscono subito dopo, siti istituzionali infestati da virus e foto pornografiche, sedicenti esperti SEO che non conoscono la differenza fra Web e Internet.
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Verso un nuovo umanesimo digitale…
Forse la soluzione è nell’umanesimo digitale, in un nuovo incontro fra tecnologia e umanità, una sorta di integrazione che si appoggi al meglio dei due mondi, in modo che diventino un mondo unico.
La tendenza sembra quella, con device che diventano sempre più sottili, quasi volessero scomparire fino a quando rimangano solo le funzionalità da loro espletate.
D’altra parte in molti settori manca ancora una reale integrazione: nella musica ad esempio si è perso il gusto dell’acquisto di un oggetto “fisico” legato al brano o al disco acquistato, tanto che vi è un ritorno all’antico, addirittura al disco in vinile: ma certamente non è questa la soluzione.
Chi scrive la soluzione ancora non ce l’ha, ma ci sta lavorando.
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Bonus Beat: il “Mostro Burocratico”
Non me ne ero scordato, volevo soltanto tenere il meglio per la conclusione.
Mettete in mano il mezzo informatico a un “Vero Burocrate”, ovvero una persona che ragiona per certificati codicilli e timbri, e otterrete una buona parte parte delle soluzioni informatiche infernali che ancora infestano i servizi della Pubblica Amministrazione.
Certamente vi sono stati miglioramenti a macchia di leopardo negli ultimi due anni, ma continua a mancare un progetto a media scadenza e una visione d’insieme.
Ecco quindi che la specie peggiore di Utonto, il “Vero Burocrate Informatico”, si sviluppa davanti ai nostri occhi terrorizzati come un uruk-hai creato nelle industrie di Isengard dallo scrittore J.R.R. Tolkien, uscendo da una placenta immersa nel più fangoso codice concepibile.
E crea servizi online che chiudono a una certa ora come gli uffici, che richiedono documentazioni stampate in triplice copia cartacea, facendoti magari pagare bolli e diritti di segreteria là dove tutto il lavoro è automatizzato.
Servizi che non comunicano con i database ufficiali e ogni volta richiedono tutti i tuoi dati pur avendoli già, che “per sicurezza” non permettono il copia e incolla sui campi delle loro pagine, che impongono limiti allucinanti sulla creazione delle password costringendoti a salti mortali ortografici.
Con buona pace del povero Alan Turing.
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