Occupazione e digitalizzazione: quarant’anni di profezie sbagliate
I numeri reali mostrano un’ostinata realtà: informatizzare non aumenta la disoccupazione e apre nuovi inattesi settori economici, anche oggi...
Costruiamo le macchine perché agiscano al nostro posto, ci sostituiscano nelle incombenze più faticose, pericolose, alienanti.
Una volta che ci siamo socialmente liberati di quei compiti (e più raramente anche prima) li definiamo “disumani” e non vogliamo più farli.
Li chiamiamo “disumani” perché ci pare che nell’eseguirli gli aspetti tipici della nostra umanità siano resi inutili, trasformandoci in semplici esecutori di mansioni.
Un lavoro disumano è quello che ci rende automi, dunque automatizzarlo ci rende umani (o meglio, più umani).
Allo stesso tempo, ad ogni nuova funzione che si riesce ad attribuire agli automi qualcuno si infervora nell’assicurare che ciò produrrà disoccupazione, predicendo cioè che all’eliminazione della fatica corrisponderà una diminuzione dell’occupazione.
Ad una lettura ingenua, infatti “lavoro” e “posto di lavoro” sembrano direttamente collegati in quantità: se c’è molto da fare, allora ci saranno molti posti corrispondenti.
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Il vero dato: i personal computer, la posta elettronica e i siti Web non hanno decurtato posti di lavoro
Negli Anni 80 arrivarono i personal computer e subito vi fu chi disse “Il computer cancellerà milioni di posti di lavoro”, anche soltanto perché da quel momento in poi nelle aziende si sarebbe potuto scrivere un testo senza dover usare la macchina per scrivere e, dunque, coloro che facevano della dattilografia il proprio mestiere avrebbero perso il loro posto.
Quando arrivò la posta elettronica, si disse lo stesso per i postini e, più in generale, per tutti quelli che operavano nella complessa filiera che recapitava buste e lettere da una parte all’altra del mondo.
Di seguito nacquero i siti Web, attraverso cui le aziende potevano dare informazione sui propri servizi e prodotti senza più usare opuscoli, cataloghi, manuali, eccetera, eccetera.
Si previde la sparizione dell’occupazione di tutto o quasi di un intero settore editoriale, apparentemente inutile perché sorpassato da quella invenzione matrigna e pervasiva.
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Saltando altri esempi di questi turbinosi decenni di sviluppo della scienza e della tecnica, è l’Intelligenza Artificiale l’ultimo spaventoso drago in grado di bruciare milioni di posti di lavoro (300, secondo un recente studio di una multinazionale della consulenza).
E via con gemiti, lai, premonizioni di tristi futuri.
I dati storici smentiscono queste tetre supposizioni.
Un grafico riporta i dati disponibili presso il Fondo Monetario Internazionale (https://www.imf.org/external/datamapper/LUR@WEO/WEOWORLD/ADVEC) e indica come la disoccupazione nei Paesi ad economia avanzata (cioè quelli che prima e più degli altri applicano ogni tipo di innovazione tecnica disponibile) non abbia mai vissuto quei picchi che erano stati previsti all’apparire di ogni nuovo avanzamento dell’automazione.
Anzi, se si esclude la fase pandemica, la disoccupazione è in continua discesa dal 2010, quando si raggiunse l’apice a seguito della crisi finanziaria del 2008, che niente aveva a che fare con scienza e tecnica.
Posto che la perfetta sincronia tra l’ascesa dell’AI e la discesa della disoccupazione non implica un rapporto causale, si può comunque dire che i foschi presagi non si siano realizzati per nessuna delle diverse ondate di novità digitali.
Dovrebbe bastare non solo per tacitare i profeti di sventura, quanto piuttosto per chiedersi come mai il lavoro affidato alle macchine non elimini l’occupazione.
La risposta la troviamo anche questa volta nei dati e con un ragionamento semplice.
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Più automazione, più tempo: un’equazione dimostrata dal boom delle attrezzature sportive negli USA
Negli Stati Uniti il mercato delle attrezzature sportive è passato da poco meno di 19 miliardi di dollari del 1998 agli oltre 117 del 2022.
Questo dato corrisponde ad una sempre più estesa parte della popolazione che ha tempo, energie e denaro da dedicare alla pratica dello sport.
Anche i dati relativi al turismo danno indicazioni simili, come pure altri consumi derivanti dalla disponibilità di cosiddetto “tempo libero”.
E quel tempo, come lo si è liberato se non attraverso le macchine?
Proprio consentendo una produttività superumana, l’automazione ha consentito a quelle persone di avere non solo più tempo a disposizione, ma anche salvaguardare energie con cui svolgere attività che i nostri nonni dovevano invece investire nelle fatiche agricole o di fabbrica.
Insomma, l’automazione nelle sue varie forme è voluta dagli umani perché a loro favorevole e ciò si riflette nella nascita e nella crescita di interi nuovi settori economici.
Senza estendere il discorso ad altri aspetti quali, ad esempio, le necessità energetiche e gli effetti sugli equilibri planetari sociali ed ecologici, bisogna comunque evitare ingenuità.
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Per i figli “disumano”, per i genitori “dignitoso”: la metamorfosi del lavoro attraverso le generazioni
Se, come dimostrano gli esempi appena descritti, il legame tra “lavoro” e “posto di lavoro” non è globalmente quello rappresentato dalle previsioni pluriennali rivelatesi errate, comunque è bene mettersi nei panni di coloro che, per pochi che siano, davvero possono vedere messi a rischio i propri salari in quanto eseguono esattamente la funzione che l’automa va a compiere.
Tralasciando la risposta politica che deve essere data a questi specifici casi, ci sono due concetti da tenere a mente.
Il primo è che i figli di coloro che perdono quel genere di mestiere non vorranno tornare a farlo: la definizione di “disumano” saranno loro ad applicarla.
Così l’operaio alla catena di montaggio che ripete sempre lo stesso movimento per tante ore al giorno di tanti giorni della settimana (quello di Charlot in “Tempi Moderni”, per capirsi) potrà temere il robot, ma suo figlio mai e poi mai vorrà tornare a quell’operazione ripetitiva ed alienante.
Il secondo è che il salario è la forma di distribuzione economica più estesa nel mondo e che al ruolo professionale tanta parte della società ha legato il concetto di dignità personale.
Dunque, se a qualcuno diciamo “Resta a casa. La macchina ti sostituirà” e anche nel caso in cui gli sia comunque versato mensilmente il suo compenso, facilmente egli sentirà questo allontanamento come una riduzione della sua dignità.
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Il rapporto altalenante tra dignità e lavoro in due secoli dall’Ancien Régime alla rivoluzione industriale
È quella che il ruolo di lavoratore gli ha socialmente attribuito durante il XX secolo, assunto che fino ad allora era l’opposto, ovvero che essa stava nella non necessità di lavorare, stato tipico dei nobili d’Ancien Régime.
Questa è la domanda: come si può fare per riconoscere la stessa dignità alle persone (verosimilmente poche) cui non si possono offrire alternative professionali?
Per certo, non si potrà farlo senza una modifica del rapporto tra ruolo lavorativo e dignità personale, partendo dall’idea che un lavoro è disumano quando la riduce, la minimizza, la distrugge.
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