Come micro e nanoplastiche finiscono nei ghiacci dell’Artico

La scienziata ambientale Alice Pradel coltiva carote di ghiaccio nei laboratori ETH per studiare l’accumulo di MNP nei mari del Polo Nord

MNP nei ghiacci dell'Artide: la ricerca in laboratorio
Alice Pradel nella camera fredda in cui crea carote di ghiaccio in colonne riempite di acqua di mare per studiare il trasporto di micro e nanoplastiche nel ghiaccio (Foto: Michel Büchel/ETH Zurigo)

La scienziata ambientale Alice Pradel coltiva carote di ghiaccio nei laboratori del Dipartimento di Scienze Ambientali del Politecnico di Zurigo per studiare il trasporto e l’accumulo di micro e nanoplastiche (in sigla MNP) nei ghiacci del continente Artico.

Gli inquinanti eterni come i polimeri plastici non soltanto hanno raggiunto i punti più remoti e incontaminati del pianeta, ma costituiscono una forma d’inquinamento particolarmente ostile e difficile da debellare: le particelle più numerose nei ghiacci marini, infatti, sono proprio quelle che hanno le dimensioni più piccole (che spesso sono letteralmente impossibili da individuare).

L’obiettivo della ricerca di Alice Pradel non si ferma alla comprensione dei flussi di materiale plastico nei ghiacci, ma intende anche fornire alla comunità scientifica un metodo affidabile per studiare i ghiacci artici senza doversi recare fisicamente al Polo Nord, in modo da svolgere la ricerca in maniera più sostenibile.

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Microplastiche nell'Artico: lo studio svizzero
Il ghiaccio marino che sovrasta l’Oceano Artico non è una distesa compatta: nelle stagioni calde può assomigliare, come mostra questa fotografia del 12 luglio 2011, a una zona umida costiera (Foto: NASA Goddard Space Flight Center)

Microsfere e nanoplastiche: dai cosmetici al Great Pacific Garbage Patch

L’interesse di Alice Pradel per il tema delle micro e nanoplastiche è nato quando era una giovanissima scienziata. Era il 2012, ed era appena stata lanciata la campagna “Beat the Microbead” della Plastic Soup Foundation, che punta a informare sull’uso di microplastiche nei prodotti cosmetici riducendone l’utilizzo da parte dei produttori.

Come si legge nel report di Plastic Soup Foundation, l’indagine su quasi 8mila diversi prodotti per la cura del corpo dei più popolari marchi europei ha restituito un risultato impietoso: “9 prodotti cosmetici su 10 contengono microplastiche inquinanti”.

E non si tratta soltanto delle microsfere utilizzate per le creme esfolianti: micro e nanoplastiche sono aggiunte alle preparazioni cosmetici come agenti emulsionanti e anche semplicemente come “riempitivo” economico.

Per la giovane scienziata, la campagna contro le microsfere nei cosmetici è stata un campanello d’allarme: “Ero scioccata dal fatto che immettessimo tutte queste sostanze chimiche nell’ambiente senza preoccuparci di scoprire cosa ne fosse di loro“, ricorda.

Nello stesso periodo, andavano diffondendosi le prime immagini della Great Pacific Garbage Patch, che in qualche misura fornivano una risposta ai dubbi della Pradel.

E da allora non abbiamo certo smesso di produrre plastica o liberarcene nel peggiore dei modi, al contrario: la produzione globale di plastica nel 2020 si è attestata sulle 400 milioni di tonnellate, e soltanto il 9 per cento di quanto prodotto è stato riciclato. Per il resto, è stato incenerito oppure gettato in discarica o nell’ambiente.

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Nanoplastiche nell'Artico direttamente in laboratorio
Placche di ghiaccio che si sgretolano nell’oceano Artico: il flusso tra l’acqua del mare e il ghiaccio è costante ed è così che le MNP s’insinuano (Foto: Monja Šebela/Copernicus Sentinel/Wikipedia)

Come le microplastiche si insinuano nel ghiaccio artico e lo inquinano

Durante i suoi studi di Master all’Università di Rennes, nel nord-ovest della Francia, Alice Pradel si è concentrata sul modo in cui diverse sostanze chimiche, come i pesticidi, si accumulano nel suolo e in altri materiali porosi.

Furono le lezioni di Julien Gigault, chimico del centro di ricerca francese CNRS, a rivelare alla giovane ricercatrice il processo della miniaturizzazione della plastica ad opera di processi biotici e abiotici: la scomposizione in particelle sempre più piccole, fa sì che i materiali di partenza assumano nuove proprietà, e diventino capaci di pervadere tutti i sistemi ecologici, senza distinzioni.

Pradel decise di dedicare la sua tesi di dottorato, con Gigault come relatore, proprio al tema dell’accumulo di micro e nanoplastiche nei materiali porosi. Era il 2018, ed era appena uscito uno studio sconvolgente, che aveva individuato grandi quantità di microplastiche accumulate nei ghiacci marini del continente Artico.

Il ghiaccio, a ben vedere, è a tutti gli effetti una sostanza porosa, con tanto di cavità e microscopici flussi d’acqua salata che si muovono fra i cristalli: lo scambio tra l’acqua di mare e il ghiaccio è costante, ed è qui che si insinuano i pericoli delle micro e nanoplastiche (MNP).

Micro e nanoparticelle possono rimanere incastrate tra i cristalli di ghiaccio”, spiega la Pradel, “questo è molto problematico, perché quelli sono proprio i punti in cui le microalghe (che possono assorbire gli additivi plastici tossici immettendoli nella catena alimentare artica) prosperano meglio”.

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Microplastiche nel mare del Polo Nord: la ricerca
Alice Pradel mostra fra le sue mani diversi tipi di microplastiche (Foto: Michel Büchel/ETH Zurigo)

Scienza sostenibile: perché coltivare il ghiaccio marino in laboratorio

Le micro e nanoplastiche sono le più comuni nel ghiaccio marino. Il problema è che gli scienziati non possono quantificare le particelle più piccole di 10 micrometri: “Questo suggerisce che non possiamo né vedere né misurare con precisione la maggior parte della plastica presente nel ghiaccio marino“, afferma Alice.

Per indagare più da vicino la questione, la Pradel ha quindi sviluppato un metodo per coltivare il ghiaccio marino in laboratorio. La prima fase consiste nel raffreddare l’acqua marina in una colonna di vetro – da 1°C (estremità inferiore) a -5°C (estremità superiore). Così facendo, dopo 19 ore, sulla superficie si forma un nucleo di ghiaccio spesso circa 10 centimetri.

Queste carote di ghiaccio marino, addizionate con particelle di MNP, permettono di seguire il percorso degli inquinanti dall’acqua al ghiaccio e di studiarne i meccanismi di accumulazione senza dover affrontare un viaggio verso l’Artide: “iI nostro obiettivo è quello di condurre la ricerca ambientale in modo rispettoso del clima“, spiega la Pradel.

Oggi la scienziata conduce le sue ricerche nel gruppo della professoressa Denise Mitrano, che studia le particelle antropogeniche, la loro tossicità e il loro impatto sull’ambiente.

I suoi studi potrebbero aprire nuovi scenari d’indagine: “Il riscaldamento globale sta rendendo il ghiaccio marino artico molto più dinamico”, spiega, “il ghiaccio stesso si sta assottigliando, i processi di scioglimento diventano più veloci e la ridistribuzione di sali e particelle all’interno del ghiaccio sta aumentando di velocità”.

La possibilità di simulare questi processi in laboratorio potrebbe rivelarsi una vera svolta per gli studi sul clima.

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MNP nei ghiacci marini: la ricerca di Alice Pradel
Alice Pradel utilizza le carote di ghiaccio create in laboratorio per studiare dove si accumulano le micro e le nanoplastiche nel ghiaccio. (Foto: Michel Büchel/ETH Zurigo)