Nella malinconia di oggi un fossile dell’etica che abbiamo perduto
In un’epoca in cui un impianto moralistico ha soppiantato quello morale, il genere umano è sperduto per l’assenza di simboli e di miti fondanti
Il comportamento: già, il comportamento dell’uomo è molto cambiato, nel giro di qualche generazione.
Tra l’altro, mentre, prima, ogni uomo agiva secondo un articolato sistema di leggi, morali, politiche, di branco, oggi sono le leggi che, in un certo senso, derivano dal comportamento umano.
Tra relativismo e behaviorismo, la sensazione è che non vi sia più una norma dogmatica che sancisca il discrimine tra bene e male, ma che ogni cosa sia legata alla circostanza: ciò che qui è bene, lì può essere male.
In qualche modo, mentre, un tempo, esisteva un ἦθος abbastanza stabile, che corrispondeva alle regole ataviche della civiltà occidentale, oggi che moltissime civiltà se la giocano alla pari o quasi e che scrivere di civiltà occidentale sembra quasi ironico, l’etica si è allontanata dall’idea filosofico-morale, per assumere un carattere quasi individuale.
Un regresso, probabilmente: come se gli antichi Romani avessero adottato il personalismo giuridico del mondo germanico, abbandonando la loro idea di diritto territoriale.
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La trimurti antropologica di Dio, Patria e Famiglia abbattuta senza qualcosa che la sostituisse
Ma facciamola semplice: un tempo, neppure troppo lontano, la società si reggeva sulla trimurti antropologica di Dio, Patria e Famiglia.
Questa sorta di trinità è stata abbattuta, un mattone alla volta, dalla modernità: alcuni inaccettabili vincoli, certe fisime senza senso, sono, per fortuna, stati cancellati dalla nostra sensibilità etica.
Al loro posto, però, spesso e volentieri, non è stato messo nulla.
Nessun mito fondante, nessun simbolo: nulla. E gli uomini faticano a vivere senza simboli: senza riferimenti.
Perciò, in assenza di un unico alveo, il fiume in cui scorre la nostra coscienza di uomini si è perduto in mille rivoli e rivoletti.
Ci siamo sentiti orfani e, al tempo stesso, abbiamo capito di odiare i nostri genitori, tanto naturali quanto putativi. E questo ci ha resi eticamente vacillanti: lemuri disperati sull’ottovolante del progresso.
Questa è la grande differenza tra un uomo del XIX secolo e noi, gente del terzo millennio: il primo era sorretto da un impianto morale che ne dirigeva le scelte etiche in maniera pressoché automatica.
Questo si fa, questo non si fa: senza troppi perché.
Noi, invece, ci troviamo a fare i conti con una sensibilità del tutto inesperta delle cose: siamo primitivi ed evolutissimi al contempo.
E siamo spaventosamente deboli, proprio sul versante dell’etica, perché non abbiamo altro modello se non quello negativo.
Questo non si fa, ma non si fa nemmeno quest’altro.
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L’intuizione anzitempo del poeta Eugenio Montale: “Ciò che non siamo, ciò che non vogliamo”
Eugenio Montale, d’altronde, aveva già chiarito perfettamente questo snodo quasi cento anni fa: “ciò che non siamo, ciò che non vogliamo”.
Ma che cosa siamo? E, soprattutto, cosa vogliamo?
Noi, con la nostra supposta libertà, che prevede molti più vincoli che nel passato: un sacco di remore, di tabù, di parole proibite.
Mi verrebbe da dire che siamo vittime di un’etica dell’ipocrisia: un impianto moralistico che ha soppiantato quello morale.
Un mondo in cui non si costruiscono città prive di barriere architettoniche, ma in cui dire “zoppo”, “cieco”, “sordo” equivale a bestemmiare in chiesa.
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Dal passato al presente, l’ipocrisia delle azioni è diventata anche un’ipocrisia delle parole…
Ecco, forse è questa la maggiore differenza tra l’ἦθος del passato e il nostro: che l’ipocrisia delle azioni, oggi è diventata anche ipocrisia delle parole.
Un’etica verbale: una morale di carta velina. È meglio? È peggio?
Lo storico non sa dire: si limita ad annotare.
Se qualcuno, fra cento anni, leggerà gli annali di quest’epoca complicata, forse, troverà delle risposte che io certo non so dare, avviluppato come sono dai miei fantasmi, dalle mie paure di uomo moderno.
E di uomo eticamente fragile. Certamente, molti di noi soffrono di una nostalgia cui non sanno dare un nome: il rimpianto di qualcosa che non ben sappiamo, ma di cui percepiamo dolorosamente l’assenza.
E questa malinconia senza ragione apparente, è la traccia dell’etica che abbiamo perduto: è come un’impronta fossile, che conserva la sagoma di una conchiglia che si è dissolta milioni d’anni fa, ma che sopravvive come immagine soltanto.
E che non potrà mai riprodurre al nostro orecchio il rumore delle onde.
Il suono remoto di un mare che non abbiamo mai ammirato, ma che ci manca immensamente. La nostra anima, la nostra identità.
È terribile vivere sulla faglia che divide due epoche. O, forse, semplicemente, è terribile vivere.
L’etica potrebbe risponderci, ma, purtroppo, l’abbiamo nascosta e non ci ricordiamo dove.
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